Plutarco*
«Osserviamo solo che ciascuno dei numeri potrebbe presentare non poca materia di lode e di celebrazione a chi ne abbia voglia. E che senso avrebbe parlare degli altri numeri? Basterebbe il numero “sette” sacro ad Apollo, a esaurire la giornata, prima di passare in rassegna, ragionando, tutte quante le sue proprietà. Senza dire, poi, che dovremmo avere il coraggio di denunziare i saggi, i quali, “in contrasto” con l’opinione comune e con “la remota antichità”, deposero il “sette” dal posto d’onore, per consacrare al dio il “cinque”, come un valore che gli si addicesse di più! Ecco, non si tratta, per me, né di un numero, né di un grado, né di una congiunzione, né di qualsiasi altra particella incompiuta. Nulla di questo è indicato dalla lettera in questione! Si tratta, per contro, di un modo, anzi del modo più compiuto, in sé e per sé, di rivolgersi al dio e di salutarlo: pronunziare questa sillaba significa già installarsi nell’intelligenza dell’essere divino. Mi spiego: il dio, quasi per accogliere ciascuno di noi nell’atto di accostarci a questo luogo, ci rivolge quel suo ammonimento “Conosci te stesso”, che vale indubbiamente ben più del consueto “Salve”. E noi, in ricambio, confessiamo al dio: “Tu sei – Ei” e così pronunziamo l’appellativo preciso, veridico, e che solo si addice a lui solo.
Certo, non è dato immergersi due volte nello stesso fiume,
al dire di Eraclito, né quindi è dato toccare, due volte, nella stessa situazione, una sostanza mortale. Al contrario, pronti e rapidi mutamenti “la disperdono e di nuovo la radunano” o, meglio, non “di nuovo”, non “più tardi”, ma “a un tempo” ella si costituisce e vien meno, “entra ed esce”.
«Ond’è che tale sostanza mortale non porta a termine verso la via dell’esistenza tutto quanto in essa entra nel divenire, per il semplice fatto che proprio questo divenire non conosce tregua o riposo, mai. Così, dal germe, essa, in una trasformazione incessante, produce l’embrione e poi il poppante e poi il bimbo, in seguito, l’adolescente, il giovane, e poi l’uomo, l’anziano, il vecchio, distruggendo via via i precedenti stadi dello sviluppo e le varie età, per far posto a quelle che sopraggiungono. Eppure noi – oh, che cosa ridevole! – non temiamo che una sola morte, mentre, in realtà, abbiamo subìto e subiremo infinite morti! Perché, non solamente “la morte del fuoco – al dire di Eraclito – è nascita per l’aria, e la morte dell’aria è nascita per l’acqua” ma la cosa è ben più chiara nel caso nostro: l’uomo maturo muore, quando nasce il vecchio; e il giovane morì per dar luogo all’uomo maturo; e così il fanciullo per il giovane; e il poppante per il fanciullo. L’uomo di ieri è morto per l’uomo d’oggi; e l’uomo d’oggi muore per l’uomo di domani. Nessuno persevera, nessuno è uno; ma noi diveniamo una moltitudine: intorno a non so quale fantasma, intorno a un sustrato comune di argilla la materia circola e sguscia via. Del resto, come mai, supponendo di perseverare in un’identità, noi ci rallegriamo ora di cose diverse da quelle che ci rallegravano prima? Come mai oggetti contrari suscitano ora amore, ora odio, ora ammirazione, ora biasimo? Perché usiamo parole sempre diverse e siamo soggetti a diverso sentire? Perché non sono mai uguali in noi né l’aspetto, né la figura, né il pensiero? Senza cambiamento, certo, non si spiegano questi stati ognora diversi; e chi cambia, quindi, non è più lo stesso. Ma se uno non è lo stesso non è semplicemente, ma diviene sempre nuovo e diverso dal diverso di prima, proprio nel fatto che cambia. Sbagliano i nostri sensi, per ignoranza dell’essere reale, a dar essere a ciò che appare soltanto.
Ond’è che dire, dell’Essere vero, “Esso fu” o “Esso sarà” è quasi un sacrilegio. Tali determinazioni, invero, sono flessioni e alterazioni di ciò che non nacque per durare nell’essere.
«Occorre, allora, che nel modo ora spiegato i fedeli rivolgano al dio il saluto e l’invocazione: “Tu sei” o anche, per Zeus, come alcuni antichi dicevano: “Sei Uno!”. Poiché la divinità non è moltitudine, come ognuno di noi, congerie svariata e intruglio plebeo d’infinite ibride passioni. Al contrario, l’Ente vuol essere uno, come l’Uno vuol essere ente. Se l’essere ammettesse un altro, questi, naturalmente, differirebbe dal primo, e pertanto entrerebbe nel divenire, cioè nel non essere.
«Perciò sta bene al dio il primo dei nomi e così pure il secondo e il terzo: Apollo, infatti, per così dire, rifiuta la pluralità e nega la molteplicità; Ieios vuol dire che è uno e solo; quanto a Febo, è certo che gli antichi così chiamavano tutto ciò che fosse puro e casto, come, oggi ancora, credo, i Tessali applicano il verbo “febonomizzare”[1] ai loro sacerdoti, allorché costoro, nei giorni nefasti, se ne stanno straniati e isolati. Ma solo ciò che è uno è limpido e puro; poiché dalla mescolanza di cose diverse nasce la contaminazione, come anche Omero in qualche luogo dice che l’avorio, tinto in rosso, è contaminato[2]. Perciò i tintori dicono che i colori, mescolandosi, si alterano e chiamano “alterazione” tale mescolanza. In conclusione, unità e semplicità sono attributi costanti di ciò che è incorruttibile e puro.
«Pure si va cianciando di emanazioni del dio e di trasformazioni tali che il dio si risolverebbe in fuoco con l’universo intero e poi, di bel nuovo, si contrarrebbe, quaggiù, e si distenderebbe via via in terra e mare e vento e animali ed entrerebbe nelle forme paurose dei viventi e delle piante: tutto questo, anche a udirlo, è empietà! Oh, il dio, allora, varrebbe meno del fanciullo omerico: e, come questi si diverte ad ammucchiar sabbia e a disperderla di nuovo, sotto il suo sguardo, per gioco, così il dio si comporterebbe eternamente con l’universo e lo costruirebbe dal nulla e poi, appena sorto, lo farebbe ricadere nel nulla.
«Al contrario, di ciò che entrò, comunque, nell’esistenza cosmica Dio serra insieme la compagine e domina la naturale debolezza corporea, che è volta, di per sé, alla distruzione. Per me, anzi, è proprio ordinata a testimonianza contro l’opinione suddetta l’interpretazione “Tu sei”, rivolta al dio, nel senso che per lui non si dà giammai scardinamento dall’essere e trapasso. Soltanto a qualche altro dio, o, meglio, a un demone preposto alla natura di ciò che nasce e muore, conviene entrare in tale giro di azioni e di passioni. La cosa è chiara anche a partire dagli stessi nomi i quali, sembrano a primo sguardo, per così dire, antitetici di senso e di concetto. Poiché l’uno è detto Apollo (unico), l’altro Plutone (multiplo); l’uno Delio (chiaro), l’altro Aidoneus (tenebroso); l’uno Febo (brillante), l’altro Scotio (oscuro). Aggiungi, poi, che fan corteo al primo le Muse e la Memoria; e al secondo l’Oblio e il Silenzio. L’uno è Visione e Splendore, l’altro, invece,
principe della Notte buia e del Sonno inerte
ai mortali è il più odioso tra tutti gli dei;
mentre Pindaro, con tanta dolcezza, ha detto del primo:
fu giudicato il più benigno ai mortali.
Così pure Euripide si espresse giustamente:
Libagioni e canti di morti ormai consunti
Apollo dalla chioma d’oro non li accoglie più.
E, prima ancora di costui, Stesicoro:
Danze, giochi e canti: ecco ciò che Apollo ama soprattutto!
Pianti, invece, e singhiozzi trasse in sorte Hades.
Che persino Sofocle assegnasse all’uno e all’altro dio il suo proprio strumento, è chiaro da questi versi:
Né l’arpa né la lira amano i lamenti.
«Gli è che tardi e solo recentemente il flauto ardì esalare la sua voce “per i desideri ridenti dell’amore”. Nei primi tempi, esso era tratto ai lutti e alle cerimonie luttuose e perciò non aveva tanto prestigio e splendore. In seguito tutte le distinzioni caddero e si confuse ogni cosa. Soprattutto la confusione tra dei e demoni gettò scompiglio tra gli uomini.
«Comunque, il “Tu sei” e il “Conosci te stesso” solo apparentemente, a mio credere, contrastano tra loro; in una certa interpretazione le due massime concordano ancora. Infatti, la prima, col senso di timore e di venerazione che include, è un’alta proclamazione al dio come a Colui che esiste eternamente, la seconda è un memoriale, per l’uomo mortale, su la sua natura e la sua fragilità».
* Estratto dal Dialogo di Plutarco, De E apud Delphos (Περὶ τοῦ Ε τοῦ ἐν ∆ελφοῖς); cfr. Plutarco, Dialoghi delfici, a cura di Dario del Corno, Adelphi, Milano, 1993.
L’occasione del dialogo è esposta nel cap. 1, un proemio in forma di epistola dedicatoria a Sarapione, il poeta ateniese che figura tra i personaggi del De Pythiæ oraculis. Plutarco dunque narra all’amico come, recentemente, i suoi figli insieme a un gruppo di amici gli avessero posto delle domande sul significato del misterioso E, che è tra i sacri simboli di Delfi. Poiché il gruppo si era seduto a discutere sui gradini del tempio di Apollo, la situazione gli aveva richiamato alla mente un episodio di tanti anni fa, quando lui stesso era poco più di un ragazzo, e nel medesimo luogo si era trovato a fare parte di un gruppo che discuteva dello stesso argomento.
[1] Custodire le leggi di Febo.
[2] Iliade, IV, 141.