Jacopo Ammi
«Anche lo stolto, se tace, passa per saggio e, se tien chiuse le labbra, per intelligente»[1]
«Per ogni cosa c’è il suo momento, il suo tempo per ogni faccenda sotto il cielo […] un tempo per tacere e un tempo per parlare»[2]
«Se conosci una cosa, rispondi al tuo prossimo; altrimenti mettiti la mano sulla bocca. Nel parlare ci può essere onore o disonore; la lingua dell’uomo è la sua rovina. Non meritare il titolo di calunniatore e non tendere insidie con la lingua, poiché la vergogna è per il ladro e una condanna severa per l’uomo falso»[3]
«È bene aspettare in silenzio la salvezza del Signore»[4]
«Sia invece il vostro parlare sì, sì; no, no; il di più viene dal maligno»[5]
«Lo sapete, fratelli miei carissimi: sia ognuno pronto ad ascoltare, lento a parlare, lento all’ira»[6]
La parola “silenzio” deriva dal sostantivo latino silentium. In latino esistevano due verbi con il significato di “fare silenzio”, “zittirsi” o “stare zitto”, questi erano: silere e tacere. «Silere aveva il significato di serenità, d’immobilità, un silenziarsi impersonale. Tacere, al contrario uno stare zitto “attivo”, una volontà che pretendeva piuttosto la disciplina del non parlare con il proposito di regolare, o per così dire, di annullare le dissonanze prodotte da tutto ciò che circonda l’essere umano»[7]. Ancora, «Si potrebbe pensare che il silentium sia la logica del nulla, il suo corrispondente, ma, proprio al contrario, risulta un attento ascoltare in tutte le direzioni, avvertire, il più nudamente possibile, la voce nella quale si è riversato quanto esiste. Non può concepirsi come un’opposizione alla parola né come una pausa o interruzione del parlare, neppure come l’inverso del rumore né prendersi come un concetto sinonimo di staticità. È prima di tutto, uno stato mentale, un punto di vista che consente di captare tutta l’ampiezza del nostro limite e, tuttavia, non patirlo come linea ultima. Essere calmo nel limitato è compito del silenzio»[8].
Oggigiorno, risulta paradossale scrivere sul silenzio, tanto per la sua natura intrinsecamente ineffabile, come per la profonda avversione verso lo stesso che sperimenta l’uomo moderno. Sicuramente l’ipertrofia attivista e la suggestione ludico-tecnica proprie del nostro tempo c’entrano qualcosa. Questo rifiuto viscerale del silenzio, in quanto condizione imprescindibile per la contemplazione, si manifesta ai giorni nostri nelle tendenze centrifuga (fuga dal centro), all’estroversione (volgersi verso l’esterno) e dispersiva (opposta alla concentrazione), ed è intimamente legato alla paura della solitudine. Oggi nessuno vuole stare solo, né socialmente né mentalmente, abbiamo escluso il silenzio e ci consegniamo a tutti i tipi d’intrattenimento per sfuggire dalla nostra interiorità, ragion per cui molte persone non raggiungeranno mai il centro del loro essere, perché temono di trovarsi con se stessi, nella solitudine del cuore, trovandosi esiliati dalla loro vera esistenza, sommersi nell’ignoranza di se stessi.
Per quanto riguarda la relazione tra silenzio e solitudine riteniamo opportuno riferirci a queste parole di René Guénon: «Quanto alla solitudine, conviene notare innanzitutto che la sua associazione con il silenzio è in certo qual modo normale e persino necessaria, e che, anche in presenza di altri esseri, colui che fa in lui il perfetto silenzio s’isola con ciò stesso forzatamente da loro; del resto, silenzio e solitudine sono pure implicati ugualmente l’uno e l’altro nel significato del termine sanscrito mauna, che con ogni probabilità è, nella tradizione indù, quello che si applica più esattamente a uno stato come quello di cui parliamo presentemente»[9].
A nostro parere l’esortazione e l’obbligo di mantenere il silenzio hanno diversi significati. In primo luogo, il silenzio ha una giustificazione morale (praticare la virtù e astenersi dal peccato) relativi all’obbedienza e alla disciplina, vale a dire alla sottomissione della volontà umana a quella divina. Così, si tratta d’umiliare l’ego, l’avversario interno, il “drago” che deve essere combattuto nell’anima umana[10], privandolo del suo sostentamento principale: la verbosità incessante e il discorso mentale ininterrotto e ricorrente che alimentando la natura illusoria dell’ego.
Ma, al di là di quest’interpretazione, pensiamo che la vera ragione del silenzio risieda nella sua dimensione metafisica. Crediamo si possa stabilire un’analogia o equivalenza tra il ternario Non Essere-notte-silenzio e il suo corrispondente Essere-giorno-parola, essendo quest’ultimo un’affermazione o manifestazione del primo. Infatti, come dice Guénon: «La molteplicità, essendo inerente alla manifestazione, e accentuandosi tanto più, se così si può dire, che si scende a gradi più inferiori di questa, allontana dunque necessariamente dal non manifestato; così l’essere che vuole mettersi in comunicazione con il Principio deve innanzitutto fare l’unità in se stesso, per quanto possibile, con l’armonizzazione e l’equilibrio di tutti i suoi elementi, e deve anche, allo stesso tempo, isolarsi da ogni molteplicità a lui esteriore. L’unificazione così realizzata, anche se è ancora solo relativa nella maggior parte dei casi, nondimeno è, secondo la misura delle attuali possibilità dell’essere, una certa conformità alla “non-dualità” del Principio; e, al limite superiore, l’isolamento assume il senso del termine sanscrito kaivalya, che, esprimendo allo stesso tempo le idee di perfezione e di totalità, arriva, quando ha tutta la pienezza del suo significato, a designare lo stato assoluto e incondizionato, quello dell’essere che è pervenuto alla Liberazione finale»[11].
È necessario quindi tornare al silenzio, a quel clima interiore di silenzio che fa che risuoni nelle profondità dello spirito la misteriosa chiamata di Dio e la possibilità di andare al suo incontro. Un silenzio che evita risonanze aggressive e risentimenti, che nasce dall’umiltà e risveglia la carità verso gli altri. Perché solo l’esperienza vissuta nella nostra solitudine interiore ci consente d’incontrare Dio e noi stessi. Un silenzio, infine, dove dimora il mistero.
Presentiamo di seguito una selezione di testi cristiani che trattano del silenzio, accompagnati da un breve corrispondente commento, così come da una succinta biografia dell’autore.
Con l’Editto di Milano (313), si pone fine alle persecuzioni dell’Impero Romano contro i cristiani e ha inizio un periodo di tolleranza religiosa che sarebbe terminato con la proclamazione del cristianesimo come unica religione ufficiale dell’Impero (Editto di Salonicco, 392). In tale contesto inizia il movimento ascetico dei Padri del deserto. Si tratta di un insieme di monaci (uomini e donne), eremiti e anacoreti, che abbandonarono la vita decadente e dissoluta delle città vivendo nelle solitudini del deserto e conducendo una vita di rinuncia, disciplina (ascesi), preghiera e contemplazione, per raggiungere così la chiamata hesykia (o pace interiore). Tale fenomeno si produsse prima nei deserti di Siria, Egitto, Palestina e più tardi nella regione della Cappadocia (Turchia attuale). Questi monaci erano conosciuti come “Padri” (abba) o “Madri” (amma) del deserto. Della maggior parte di loro si hanno solo i dati biografici; altri come Sant’Antonio Abate (251-356), famoso per la sua biografia scritta da Sant’Atanasio (Vita di Sant’Antonio), o San Simeone Stilita (390-459), famoso per essere rimasto vivo 37 anni in cima a una colonna di 17 metri d’altezza, divennero il paradigma della vita ascetica.
La vita e le opere di questi santi del deserto avranno grande risonanza nella spiritualità cristiana per la loro radicalità e autenticità di vita. Una vita piena di prodezze, digiuni, penitenze, visioni estatiche, apparizioni divine, lotte contro il diavolo, ecc.
Le loro parole o sentenze (apotegmas), che raccolgono anche aspetti della loro vita ascetica, sono state raccolte posteriormente e tradotte in numerose lingue. Quanto segue è una selezione di apotegmas relative al tema oggetto del presente articolo[12].
Il dominio di se stesso si manifesta nel controllo della lingua
IV.7. Raccontavano che il padre Agatone visse tre anni con un sasso in bocca, finché non riuscì a praticare il silenzio.
IV.13. Raccontavano del padre Dioscuro di Nachias, che mangiava pane d’orzo e di farina di lenticchie. Ogni anno si proponeva la pratica di una nuova disciplina. Diceva: «Non avrò incontri con nessuno quest’anno», oppure: «Non parlerò», oppure: «Non mangerò nulla di cotto», o ancora: «Non mangerò né frutta né verdura». Faceva così tutte le pratiche possibili; non faceva in tempo a compierne una che ne iniziava un’altra. E ciò avveniva ogni anno.
IV.27. A Scete il grande padre Macario, quando si scioglieva l’assemblea, diceva: «Fuggite fratelli!». Uno degli anziani gli chiese: «Dove possiamo fuggire di più che in questo deserto?». Egli poneva il dito sulla bocca dicendo: «Questo fuggite!». E, entrato nella sua cella, chiudeva la porta e si sedeva.
IV.39. Il padre Sisoes disse un giorno con franchezza: «Credimi, da trent’anni non prego più Dio per i peccati, ma prego così: “Signore Gesù, proteggimi dalla mia lingua”. E fino ad ora ogni giorno cado e pecco a motivo della lingua».
IV.44. Il padre Sisoes diceva: «La nostra vera vocazione è dominare la lingua».
IV.49. Lo stesso disse: «Il monaco che non trattiene la propria lingua nei momenti d’ira, tantomeno domina le passioni della carne quando arriva il momento».
IV.50. Diceva anche: «È meglio mangiar carne e bere vino che mangiare la carne dei fratelli mormorando di loro».
IV.51. Diceva anche: «Che la tua bocca non pronunci parole cattive, perché la vite non ha spine».
IV.59. Un vecchio cadde malato e non poté prendere cibo per molti giorni. Il suo discepolo chiese il permesso di preparare qualcosa che lo riconfortasse. Così fece e gli preparò una pappa con farina di lenticchie. Lì v’era appeso un vaso contenente un po’ di miele e un altro riempito con olio di lino con un odore molto cattivo e che serviva solo per la lampada. Il fratello si sbagliò e al posto del miele versò olio fetido nella pappa. Nell’assaggiarla il vecchio non disse nulla e continuò a mangiare in silenzio. Il fratello insistette perché mangiasse di più. E il vecchio facendosi violenza riprese a mangiare. Il fratello insistette per la terza volta, ma il vecchio si rifiutò, dicendo: «In realtà, figlio, non posso più». Il discepolo lo incoraggiò dicendo: «Padre, è molto buona, mangerò con te». E nell’assaggiarla capì quello che aveva fatto, si gettò faccia a terra, dicendo: «Guai a me, padre! Ti ho ucciso e mi sono caricato di questo peccato, perché non hai detto niente». E il vecchio rispose: «Non ti angustiare, figlio; se Dio avesse voluto che mangiassi il miele, avresti messo miele in questa pappa».
Non tutti coloro che parlano violano il silenzio e non tutti coloro che tacciono mantengono il silenzio
X.51. Diceva anche: «È uomo colui che conosce se stesso». E aggiunse: «Vi sono persone che sembrano stare in silenzio, ma il loro cuore condanna gli altri. In realtà essi stanno parlando incessantemente. Altri parlano dalla mattina alla sera e tuttavia mantengono il silenzio». Questo disse perché mai parlava più di quanto fosse di giovamento a coloro che l’ascoltavano.
Non v’è nulla di meglio che tacere
X.58. Un fratello chiese a padre Pastore: «Se vedo una cosa, pensi che dovrei dirlo?». Il vecchio rispose: «Sta scritto: Chi risponde prima di avere ascoltato mostra stoltezza a propria confusione[13]. Parla se richiesto. Se non ti chiedono taci».
XV.18. Padre Pastore raccontava che padre Mosè chiese al fratello Zaccaria, quando era sul punto di morire: «Che vedi?». Ed egli rispose: «Vedo che non v’è niente di meglio che tacere, Padre». E l’abate rispose: «È vero, figlio mio, mantieni il silenzio». Al momento della sua morte, padre Isidoro che stava accanto a lui guardando il cielo, disse: «Gioisci, figlio mio Zaccaria, poiché si sono aperte per te le porte del Regno dei cieli».
Il silenzio può edificare più delle parole
XI.3. Quando padre Amoes andava in chiesa non permetteva che il suo discepolo camminasse al suo fianco. Doveva seguirlo da lontano e se si avvicinava per chiedergli qualcosa, gli rispondeva brevemente e poi l’inviava alle sue spalle. Egli disse: «Non sia che parlando di qualcosa che è utile all’anima, scivoliamo su un argomento che non sia conveniente. Per questo non ti permetto di rimanere al mio fianco».
XI.4. All’inizio di un colloquio, padre Amoes chiese a padre Arsenio: «Come mi vedi in questo momento?». Arsenio rispose: «Come un angelo, Padre». In seguito gli chiese di nuovo: «E adesso, come mi vedi?». E Arsenio gli disse: «Come se fossi Satana, perché anche se la conversazione è stata buona, è stata come una spada per me».
XV.42. Teofilo, di santa memoria, vescovo d’Alessandria, una volta venne a Scizia. I fratelli, che erano riuniti, dissero all’abate Pambo: «Dì una parola al vescovo in modo che resti edificato da questo luogo». E il vecchio rispose: «Se non resta edificato dal mio silenzio, non lo sarà nemmeno dalle mie parole».
Saper tacere è degno di lode
XX.7. Dicevano di padre Hor: «Non ha mai mentito, non ha mai fatto alcun giuramento, mai maledetto nessuno, non ha mai parlato con nessuno se non era necessario».
XX.8. Padre Hor diceva al suo discepolo: «Abbi cura di non portare a questo villaggio nessuna parola profana».
Taci e ti salverai
XX.10. Un eremita uscì nel deserto con indosso solo un sacco di lino. Dopo tre giorni di marcia, salì su di una roccia e vide un uomo che pascolava come una bestia, in mezzo a un prateria verde. Scese senza farsi vedere e balzò sopra di lui. Ma il vecchio, siccome era nudo e non poteva sopportare l’odore dell’uomo, a malapena sfuggì dalle sue mani e si diede alla fuga. Il fratello lo rincorse gridando: «Aspettami, che ti seguo per amore di Dio». Ma l’altro si voltò e gli disse: «E io pure ti fuggo per l’amor di Dio». Il fratello si tolse la tunica e continuò l’inseguimento. Vedendo che si era tolto il vestito, il vecchio si fermò e quando gli fu vicino gridò: «Quando ti spogliasti di ciò che veniva dal mondo, ti ho aspettato». «Padre, disse allora il fratello, dimmi una parola per salvami». E l’altro rispose: «Fuggi dagli uomini, taci e ti salverai».
Riproduciamo a seguire l’undicesimo gradino della Scala Paradisi. In questo capitolo l’autore condanna la loquacità e la verbosità come origine della vanità, dell’ignoranza e d’altri peccati. Esalta al contrario il silenzio come fondamento della preghiera e della vita spirituale. Crediamo che la chiarezza espositiva e l’eloquenza di San Giovanni Climaco sul tema in questione ci dispensi dal fare ulteriori commenti.
Il parlare è il pulpito, dal quale la vana gloria predica se stessa, e di se stessa fa pompa. La loquacità è segno d’ignoranza, porta della maldicenza, maestra di fanfaluche, servetta della menzogna; neutralizza lo spirito di penitenza, chiama l’accidia, precorre la sonnolenza; distoglie dalla meditazione, mette in fuga il raccoglimento, spegne il fervore, e stronca l’orazione.
Il silenzio giudizioso è padre dell’orazione, libera dalla prigionia, custodisce il fervore; esamina i pensieri, è guardia contro il nemico, carcere di penitenza; è amore per le lacrime, causa del continuo pensare alla morte, meditazione del giudizio e pittore delle pene dell’Inferno. È alleato del pianto, e nemico della faciloneria; compagnia nella solitudine, avversario dello sdottoreggiare, aumento della scienza divina; è maestro di contemplazione, progresso inavvertito, arcana ascensione a Dio.
Chi conosce i propri falli, sa vincere la propria lingua; il ciarlone non ha ancora la coscienza di sé, come dovrebbe. Chi predilige il silenzio, si avvicina a Dio; e, parlando con Lui, da Lui viene misteriosamente illuminato. – Il silenzio di Gesù costrinse a riverenza Pilato; il tono calmo fa dar giù la prepotenza. Pietro, dopo aver parlato, piange amaramente perché aveva dimenticato colui che dice: Custodirò i miei passi, per non peccar con la mia lingua[16] e dell’altro che dice: È meno peggio cadere a terra dall’alto, che dalla lingua[17].
Un giorno ho sentito una persona, degna d’esser creduta, a dire, a proposito del silenzio, che la loquacità nasce, così in generale, da uno dei motivi seguenti: da una vita e abitudine malvagia e disonesta (poiché la lingua sarebbe un membro, che si agiterebbe secondo consuetudine contratta); oppure, specialmente trattandosi di persone religiose, soprattutto da vana gloria; talora un’ultima fonte sarebbe ancora la golosità. – Quindi spesso molti, frenando la gola attraverso una certa tensione e distensione, hanno preso dentro e lingua e scilinguagnolo.
Chi pensa alla morte, tronca le ciarle; c chi sa che cosa siano le lacrime di penitenza, è lontano le mille miglia dal raccontar baie. Chi ama il raccoglimento, tien chiusa la bocca; e chi gode di scorrazzare qua e là, da questa sua voglia matta vien cacciato di cella. – Chi ha fiutato il fervore dello spirito, fugge gli umani colloqui, come l’ape il fumo; a questa nuoce il fumo, al fervore le conversazioni. – A pochi riesce di contenere entro le dighe l’acqua dilagante; ancora più pochi sono capaci di frenate l’impuro agitarsi della lingua.
Chi varca il gradino undecimo, stronca molti vizi in un colpo solo.
Se la vita cistercense era totalmente orientata verso il mutuo incontro del Creatore e della sua creatura spirituale, è normale che San Bernardo attribuisse la massima importanza alla solitudine e al silenzio. E questo perché qualsiasi ricerca di Dio implica interiorità e raccoglimento per poter compiere la volontà divina. Tale raccoglimento nell’intimo della coscienza è requisito imprescindibile per andare all’incontro con Dio. In tutte le altre motivazioni, è quindi necessario potenziare quest’aspetto della solitudine e del silenzio, che sono preparazione cosciente e ricercata per la venuta del Verbo all’anima emergente dalle varie preoccupazioni.
In San Bernardo appare l’idea costante dell’intima relazione tra la contemplazione e l’azione, cioè tra l’esperienza di Dio e il comportamento che ne deriva. La menzione dello Spirito che si presenta al nostro spirito come uno Sposo geloso che sollecita tutta la nostra attenzione, è seguita dalla descrizione dettagliata di tutto ciò che ostacola la nostra coscienza, la moltitudine di pensieri e giudizi che la invadono continuamente. Il silenzio, poi, è un’osservanza cistercense molto importante, a tal punto che San Bernardo lo considera il guardiano della Religione.
Secondo l’Abate di Chiaravalle si può abusare della parola per diversi motivi: per distrarsi, per imporsi con presunzione, per vanagloria, per parlare male con ironia, per lamentarsi del cibo, per confessarsi peccatore e apparire umile, o per attirare l’attenzione.
San Benedetto (Norcia 480 – Montecassino 547) è considerato il padre del monachesimo occidentale e fondatore dell’Ordine dei Benedettini. È l’autore della cosiddetta Grande Regola, Regola ascetico-monastica i cui capitoli furono d’ispirazione per l’elaborazione di altre Regole monastiche, in particolare la Cistercense redatta da San Bernardo di Chiaravalle.
Nella sua Regola, San Benedetto affronta l’importanza del silenzio nel sesto capitolo, benché non manchino allusioni allo stesso nel resto dell’opera. Sull’argomento, il Padre dei monaci si fa eco della tradizione monastica anteriore. Il silenzio di cui parla San Benedetto, la taciturnitas, non è solo silenzio materiale, ma un’attitudine del cuore indispensabile per ascoltare la Parola di Dio e prestar attenzione al fratello. Il silenzio, poi, non è per San Benedetto un mutismo orgoglioso e aggressivo, ma totale disponibilità ad accogliere la Parola Divina e umile attenzione agli altri. Da qui il silenzio che la Regola impone può essere interrotto quando lo richieda la carità. Diciamo che nel silenzio v’è una forza di purificazione, di chiarificazione e di comprensione dell’essenziale: per questo il silenzio è fecondo.
Presentiamo di seguito un estratto dei riferimenti al silenzio contenuti nella sua Regola[22].
Gregorio Nazianzeno (Nazianzo, Cappadocia 329 – Costantinopoli 389), chiamato anche Gregorio il Teologo, fu arcivescovo di Costantinopoli, sede episcopale dove giocò un ruolo di primo piano durante la celebrazione del secondo Concilio Ecumenico (di Costantinopoli). Con Basilio Magno e Gregorio di Nissa, è conosciuto come uno dei tre Padri della Cappadocia. È considerato come il più completo stilista retorico della Patristica. Ebbe gran fama di oratore e filosofo, educato nella tradizione classica, apportò grandi contributi metafisici alla teologia trinitaria, contribuendo in modo determinante alla formulazione del dogma trinitario (Mistero della Santissima Trinità). Tra le sue opere in prosa, ricordiamo: I cinque discorsi teologici, Fuga e autobiografia, La passione di Cristo e Le omelie sulla Natività.
Della sua opera poetica (Carmina) riproduciamo il bellissimo Inno a Dio, che è anche un inno al silenzio.
Inno al Dio ineffabile[23]
«Oh Tu, l’al-di-là di tutto, non è questo tutto quanto si può cantare di Te?
Quale inno potrà scioglierti la lingua? Nessuna parola Ti esprime.
A che cosa si attaccherà lo spirito? Tu sorpassi ogni intelligenza.
Tu sei il solo indicibile, poiché tutto ciò che si dice è uscito da Te.
Tu sei il solo inconoscibile, poiché tutto ciò che si pensa è uscito da Te.
Tutti gli esseri, quelli che parlano e quelli che sono muti. Ti proclamano.
Tutti gli esseri, quelli che pensano e quelli che non hanno il pensiero, Ti rendono omaggio.
Il desiderio universale, il gemito universale tendono a Te.
Tutto ciò che esiste Ti prega, e ogni essere che pensa il Tuo universo fa salire un inno silenzioso a Te.
Tutto ciò che esiste, esiste per Te; il moto dell’universo sussiste per mezzo tuo.
Di tutti gli esseri Tu sei il fine. Tu sei ogni essere e non ne sei alcuno.
Tu non sei un solo essere, Tu non sei il loro insieme;
Tu hai tutti i nomi, e quale nome darò
a Te, il solo a cui non si può dare un nome?
Quale spirito celeste potrà penetrare le nubi che coprono il cielo stesso?
Abbi pietà,
O Tu, l’al-di-là di tutto, non è questo tutto quanto si può cantare di Te?
Jacopo Ammi
[1] Proverbi, 17, 28.
[2] Ecclesiaste, 3, 1 e 7.
[3] Siracide, 5, 13-15.
[4] Lamentazioni, 3, 26.
[5] Matteo, 5, 37.
[6] Giacomo, 1, 19.
[7] Ramón Andrés. No sufrir compañía. Escritos místicos sobre el silencio. Editorial Acantilado. Barcellona, 2010, p. 13.
[8] Ibid., p. 11.
[9] René Guénon, Silence et solitude, in Études Traditionelles, no 274, mars 1949 [cf. Mélanges, Gallimard, Paris, 1976, parte I, cap. V].
[10] Ananda K. Coomaraswamy, Who is “Satan” and where is “Hell”, in Review of Religion, XII (1947), pp. 36-47.
[11] René Guénon, ibid.
[12] José F. de Retana, Las Sentencias de los Padres del Desierto, Editorial Desclée de Brouwer, Bilbao, 1989; Il silenzio nei Padri del deserto a cura di Massimo Baldini, La Locusta, Vicenza, 1987.
[13] Proverbi, 18, 13.
[14] Vedere nota biografica nel n. 39 di Lettera e Spirito.
[15] Estratti. Cfr. S. Giovanni Climaco, Scala Paradisi, Società Editrice Internazionale, Torino, 1941, a cura del Sac. Pietro Trevisan.
[16] Salmi, 119, 101.
[17] Siracide, 20, 18 (citato a memoria, «Sbagliare con la lingua è peggio che scivolare per terra»).
[18] Vedere nota biografica nel n. 39 di Lettera e Spirito.
[19] Estratti. Cfr. Bernardo di Chiaravalle, Sermoni del Cantico dei Cantici, traduzione di Domenico Turco, Edizioni Vivere In, Roma, 1996.
[20] Lamentazioni, 4, 20.
[21] Matteo 6, 6.
[22] Estratti. Cfr. La Regola di San Benedetto, versione di Anselmo Lentini, Pubblicazioni Cassinesi, 1997.
[23] Cfr. Inno a Dio di San Gregorio Nazianzeno, in Henri de Lubac, Sulle vie di Dio (Sezione prima, L’uomo davanti a Dio), traduzione dal francese di Marcello Morganti, Jaca Book, Milano, 2008.